A Nord-Est della Sicilia esiste un angolo di paradiso dove il mistero della natura pare riflettersi nelle acque di un mare sempre azzurro.
Si ha quasi l’impressione di ammirare qualcosa di magico, che appartiene all’inizio del mondo: sette isole, numero mistico e dalle molteplici simbologie, affiorano dalle acque come a evocare il mistero di Atlantide, sette schegge di terra lavica che tagliano l’orizzonte e disegnano il fascino di un panorama che invita alla scoperta.
Non è un caso che questo scenario abbia colpito l’attenzione e la fantasia di scrittori, poeti, artisti; viaggiatori del passato che hanno subìto l’attrazione irresistibile per questi mondi e ne hanno voluto ripercorrere e riproporre la ruvida, originale (o è il caso di dire “originaria”), selvaggia bellezza attraverso i loro dipinti, i loro scritti, i loro diari.
Atlantide, si diceva: il continente misteriosamente scomparso, inghiottito dalle acque e forse riemerso,come attraverso un processo catartico, nei frammenti delle isole Eolie, affiorate più di 700.000 anni fa, partorite dal mare, testimoni di ere e di realtà geologiche riportate in superficie e ancora almeno in parte tutte da scoprire.
Sono nati così, attraverso una formazione lenta e sofferta, i paesaggi sorprendenti di queste terre come sottratte al mare: scenari unici di grotte, di faraglioni, di obelischi naturali, spigolosità alternate allo stupore di spiagge nerissime e costituite da minuscoli frantumi di lava, pareti improvvisamente lisce e levigate dal vento.
Un mondo pittoresco o fotogenico a seconda delle epoche, dalle apparenze burbere e talvolta inquietanti, da scoprire e ritrarre con attenzione, con il dovuto rispetto. Eppure c’è chi ha osato, fin da epoche remotissime, fermarsi qui, creare insediamenti, vivere. Ché il terreno vulcanico – oggi si sa, un tempo lo si scopriva con soddisfazione è fertilissimo, ideale per praticare l’agricoltura.
Facile a dirsi: ci voleva del bello e del buono per ridisegnare il paesaggio, appianarne pendenze e asperità, predisporlo ad accogliere le sementi che avrebbero generato l’ulivo e la vite così come il cappero, il mandorlo, il fico: rimanevano da alzare intere pareti, incastrare pietra con pietra fino a erigere lunghi muretti a secco, veri e propri argini per i terrazzamenti artificiali, lembi di pianura imposti dall’uomo, sezioni di campi idonei alla coltivazione.
Né era agevole ritagliarsi lo spazio nella vegetazione, un tempo orgogliosa e selvatica, con i rilievi letteralmente avvolti dalle foreste di lecci, di querce, con la macchia mediterranea a sgomitare fra le righe di un racconto tracciato dal verde.
La stessa lava fertile sarebbe venuta bene anche per costruire le prime case: materiale solido, poroso, perfetto per isolare tempeste, calure, per riparare da piogge sospinte dai venti desertici.
Non c’era tempo per gli estetismi, né d’altronde li consentiva un materiale difficile da plasmare.Eccole dunque, le antiche abitazioni, tutte squadrate da sembrare addirittura edificate a moduli, disposte come possibile a seconda della conformazione del terreno.
Con le porte e le finestre a disegnare sottili fessure, quasi palpebre socchiuse a proteggersi dall’abbaglio e dal calore del sole. Ma non è tutto: in inverno occorreva trattenerlo, quel calore che si produceva fra le mura domestiche, un tepore generato dalle cucine come pure dal respiro.
Ogni materiale ricopriva un suo ruolo specifico nella costruzione degli edifici. Per le fondamenta si impiegavano i blocchi di lava, le pareti venivano tirate su in porosa pietra pomice, per il pavimento veniva bene il tufo. E il tetto? Per quello si usava il cosiddetto “astrico”. E il termine “tetto”, a ben vedere è improprio, qui si trattava di terrazze. E un motivo c’era: occorreva raccogliere l’acqua piovana, bene prezioso e talvolta raro, nelle cisterne interrate.
Se è vero che l’antica civiltà contadina è oggi in gran parte scomparsa, il turista ha però occasione di scoprire e riscoprire il fascino naturale di questo mondo rimasto intatto,in cui le tracce del disegno architettonico ne riflettono la profonda cultura. Si può andare molto indietro nel tempo, ché queste terre sono rimaste pressoché immuni dai grandi conflitti che, specie nell’ultimo secolo, hanno ridisegnato interi paesaggi urbani o spazzato realtà monumentali che resistevano da centinaia, migliaia di anni.
Le isole Eolie sono un paradiso universale. Ciascuna di esse, a seconda della propria tradizione, vocazione o conformazione, ha sviluppato una propria realtà culturale da offrire al visitatore o al turista.
Lipari è un po’ la capitale, l’Isola Maggiore, un dipinto in cui l’azzurro del mare si mescola al nero delle spiagge, al verde della natura. Salina è l’Isola dell’Intimità, del silenzio, del riposo, ideale per le famiglie, per le coppie che qui possono soggiornare in caratteristici alloggi come in piccoli alberghi.
Panarea (ricordate “Caro Diario” di Nanni Moretti?) è l’Isola della Mondanità, con le sue luci, i suoi colori, i suoi rinomati locali, i suoi grandi hotel, le costruzioni restaurate e adattate dai vip che l’hanno scelta per il loro relax.
Vulcano è l’Isola della Gioventù.
Filicudi è l’Isola della Tranquillità, riservata, amena, ideale per il riposo rilassante che solo il contatto pressoché esclusivo della natura, accompagnata dalla colonna sonora del mare, può offrire.
Alicudi è l’Isola del Silenzio, ancora più appartata di Filicudi, un minuscolo paradiso incontaminato: qui non ci sono strade né sentieri. Per risalire il cono vulcanico che è l’isola stessa ci sono solo scalini di pietra squadrati e sovrapposti dalla pazienza dell’uomo, con ciascuna scalinata che conduce a piccoli nuclei di case.
Stromboli è l’Isola di Vulcano, fucina di emozioni, scoppiettante di colori, da risalire a piedi, da vivere a ogni passo.